Nicola Fano

teatro e altre cose

Piero della Francesca

Premessa: Piero della Francesca, «matematico e pittore», è stato ritrattista eletto di Sigismondo Malatesta, a Rimini, e di Federico da Montefeltro, a Urbino. Niente di strano, se non fosse che i due erano nemici giurati. Per dire: Sigismondo organizzò e sovvenzionò i complotti contro Federico del 1446 e del 1447 (le chiamarono le “congiure di Carnevale”) dopo di che il capo urbinate tagliò il capo a tutti i nemici dell’occasione (finanziati all’uopo dal Malatesta). Naturalmente Sigismondo la prese male e continuò dalla sua Rimini a dare battaglia a Urbino: le guerre tra i due furono epiche, come clamorosa e storica è la rivalità fra i due casati che aveva preso avvio addirittura due secoli prima. Ebbene, le sembianze dei due contendenti, per come le conosciamo oggi, si devono a Piero della Francesca. Il Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta (dipinto tra il 1450 e il 1451) è al Louvre, il Dittico dei Duchi di Urbino, Battista Sforza e Federico da Montefeltro (del 1474 circa) è agli Uffizi. Insomma, com’è possibile che un grande artista sia stato al soldo di due poteri così cruentamente contrapposti? Carlo Bertelli, in un breve ma affascinante scritto pubblicato da Skira (Piero. Un pittore per due nemici, pp.50, 9 euro) cerca di dare una risposta a questa domanda.

Il bello di certe indagini artistiche (è il caso di questa) è che vanno condotte come un giallo. Non nel senso che ci siano di mezzo morti ammazzati e psicologie archetipiche (anche se in questa occasione c’è anche tutto questo), ma perché l’accademia critica nei secoli dei secoli ha dimenticato sempre la vita privilegiando nell’analisi l’estetica, il “bello”. Sicché noi adesso sappiamo tutto delle luminose imperfezioni dei volti di Piero della Francesca, tutto della sua vocazione scultorea, ma poco delle occasioni di vita che lo portarono, per l’appunto, a ritrarre due contendenti in guerra. C’è ad aiutarci, soltanto, il lento trapasso della storia che avvalora le supposizioni: Urbino, sotto il segno di Federico da Montefeltro, finì per surclassare i nemici e conquistare il privilegio papale, e quindi è attendibile che il pittore più importante dell’epoca (in quella zona dell’Italia, ovvero del mondo) abbia finito per sistemarsi alla corte del nuovo vincitore. Se non fosse che, Bertelli lo spiega con molta precisione, Piero non fu mai un artista “stanziale”. O, meglio, l’arte di quel tempo (e di sempre?) era nomade nel senso che secondava i bisogni di chi la comprava o la sovvenzionava. Fa scalpore, nel racconto di Carlo Bertelli, come Piero della Francesca sia stato in concreto surclassato a corte da due pittori «di educazione nordica, Giusto di Gand e Pietro spagnolo» i quali si recarono a Urbino a metà degli anni Settanta del Quattrocento, proprio quando – dice ancora Bertelli – «Piero non c’era e probabilmente da Sansepolcro inviava al duca il dittico con i ritratti». Ma questi sono pure i mesi (non gli anni, si badi bene) nei quali veniva portato a compimento il Ritratto di Federico da Montefeltro con il figlio Guidobaldo dello spagnolo Pedro Berruguete (alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino): Piero e il “nuovo che avanza”. Spiega Bertelli: «Federico era stato conquistato dalla “verità” degli incarnati dipinti da Pedro Berruguete nello studiolo (…). Preferì che comparissero così come erano le sue mani artritiche, benché mani pesanti e forti, da vero uomo d’armi, piuttosto che le dita aristocratiche che gli aveva attribuito Piero». E poi aggiunge quasi a smussare la straordinaria questione artistica sollevata dall’interpretazione di quelle mani di Federico: «Non si curò del contrasto con il volto melancolico, rimasto ancora dipinto da Piero». Ebbene, a questo punto si pongono due questioni, una puramente artistica e una più politica (nel senso di quale fosse o debba essere il rapporto tra arte e politica). Vediamole separatamente.

Bertelli fa riferimento al fatto che Federico (sovrano di sicuro più moderno del suo competitore Sigismondo) fu conquistato dalla “verità”. Ed è proprio nel volgere del Quattrocento (ricordiamolo, siamo nel 1475) che si pone per la prima volta un nodo cruciale dell’arte: finzione o verità? Un dibattito quasi eterno che arrovella gli animi ancora nel Novecento e oltre, mettendo di fronte i fautori del realismo (del’imitazione della Natura, quindi della verità, stando a quanto si riteneva nel Rinascimento) e quelli della finzione. Piero della Francesca – vedere per credere la celebre tavola Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il duca Federico II di Montefeltro, nota più brevemente con il nome Pala di Brera, a Milano, Pinacoteca di Brera – dipinse nel 1474 due belle mani forti e possenti, giovanili quasi, al committente duca di Montefeltro. L’anno dopo lo spagnolo Pedro Berruguete in “onor del vero” annodò le dita e le fece vecchie come probabilmente dovevano essere nella realtà. Solo una questione di piaggeria divide i due? No. Al di là di tutto, c’è una spaccatura profonda nell’idea stessa della funzione dell’arte. Per Berruguete la pittura è imitazione, nuda e cruda, rughe comprese (con qualche danno per i brutti e per i vecchi…). Piero della Francesca invece ricostruisce la realtà a proprio modo, la interpreta e ne offre una visione: Federico ancorché consumato nel fisico, ha mani possenti tanto da tener saldo il mondo. Della verità, con tutto il rispetto, Piero della Francesca non sa che farsene perché la sua funzione è esprimere un’idea, non una certezza. E la sua idea è che per governare il mondo bisogna avere mani forti. Invece per le certezze (realtà compresa) non occorre l’arte, è sufficiente la vista; l’arte semmai si occupa di dare un senso ai dubbi. Si può aggiungere che la deriva finale di questa contesa portò, poco più di un secolo dopo, Galileo Galilei a perfezionare il suo cannocchiale, strumento che chiuse il dibattito e pose la vista al centro della scienza dell’uomo, l’arte essendo ormai decaduta ad appannaggio della scienza di Dio.

Contro la quale “scienza di Dio”, sia detto senza offesa per alcuno, per primo Piero della Francesca oppose le levigate mani di Federico da Montefeltro. Bertelli sottolinea, con malizia, come i viaggi a Urbino di Piero dovettero essere molto intermittenti e non necessariamente coincidenti con la permanenza del Duca in città. Ne consegue che i ritratti di Federico (che pure fecero da modello anche ai pittori successivi, vedi Berruguete) dovettero essere fatti un po’ a memoria. Mani comprese. Non troppi anni prima un altro seguace del medesimo credo, Paolo Uccello, aveva avuto parecchi problemi con i suoi contemporanei in materia di verità e interpretazione. Forse vi sarà capitato di andare nel Duomo di Firenze. Sul lato di sinistra, a metà tra l’ingresso e l’altare, ci sono due ritratti equestri. Uno è di Paolo Uccello ed è il Monumento equestre a Giovanni Acuto, l’altro è il Monumento equestre a Niccolò da Tolentino di Andrea del Castagno. Tanto il secondo è improntato a un verismo immobile e, per ciò stesso, falso, quanto il primo è magnifico nel suo palese irrealismo. Il cavallo di Andrea del Castagno cerca di essere verosimile, quello di Paolo Uccello è di finto bronzo, immobile, statuario; non è pronto a spiccare un salto ma sta lì immobile nell’eternità a celebrare le meraviglie del suo cavaliere. Insomma, siamo alla meta-arte (si sarebbe detto nel Novecento): un affresco che ritrae una scultura! Pare che Paolo Uccello, per dipingere il suo capolavoro, il ciclo delle tre tele della Battaglia di San Romano, abbia ricostruito la scena con cavallucci di legno e aste e spade di fil di ferro in un teatrino privato: è questa l’eccezionale modernità di Paolo Uccello e di Piero della Francesca. Ché facevano teatro quando ancora il teatro non era (ufficialmente) rinato dopo la condanna subita a ruota della caduta dell’Impero Romano, ottocento anni prima.

Anche per dipanare la seconda questione ci si può appoggiare al teatro. Nel 1601 a Londra il conte di Essex e il suo giovane seguace conte di Southampton ordirono una celebre congiura contro la regina Elisabetta Tudor d’Inghilterra. La compagnia teatrale di Shakespeare (Lord Chamberlain’s Men) doveva dare l’avvio alla rivolta popolare contro la regina mettendo in scena al Globe il dramma di Riccardo II, re deposto per vecchiaia e inettitudine. La trama shakespeariana doveva scaldare il popolo per spingerlo a cacciare la regina “vecchia e inetta”. Le cose non andarono così: qualcuno aveva avvertito Elisabetta della congiura e la (modesta) sollevazione popolare fu sedata immediatamente: Essex fu ucciso, Southampton (che per altro era stato protettore di Shakespeare) fu condannato e molto più tardi graziato dalla Regina medesima. La settimana dopo il fatto, Shakespeare e i suoi andarono a corte a recitare alla presenza di Elisabetta che, così, volle festeggiare lo scampato pericolo. Insomma, anche Shakespeare è stato “pittore per due nemici”. Di più: ad animare la rivolta popolare c’era anche un amico di Shakespeare, un intellettuale di origini italiane di nome John Florio che era a propria volta informatore della Regina. Come dire: Florio (e probabilmente anche Shakespeare) faceva il doppio gioco. La morale è che l’arte non ha padroni al di fuori di se stessa. E non è una frase retorica: il saggio di Carlo Bertelli suggerisce questa conclusione pur non formulandola direttamente. Ma la sostanza è che a Piero della Francesca interessavano più i problemi relativi alla rappresentazione della realtà piuttosto che non quelli relativi al “che cosa” rappresentare. Che oggetto dei suoi ritratti fossero Sigismondo o Federico gli importava relativamente poco; semmai la sua preoccupazione era garantirsi la possibilità di continuare a dipingere (Shakespeare mirava a tornare a recitare a corte, evento eccezionalmente remunerativo). Perché (altra affermazione banale quanto veritiera) l’arte ha bisogno di finanziamenti. Buon per Sigismondo Malatesta e Federico di Montefeltro che tra gli artisti da loro “sovvenzionati” ci fosse uno dei più grandi della storia: è capitato a molti duchi o duci, nei secoli successivi, pagare di molto peggio. Poi, in un breve scorcio di secondo Novecento si ritenne che l’arte dovesse tutta, comunque, affrancarsi dalla committenza e, tramite un sobrio aiuto della comunità, misurarsi con se stessa senza dover fare i conti ogni giorno con il pranzo e con la cena. Ma quell’illusione è subito caduta ed è venuta la stagione presente (quella che chiamiamo “berlusconiana” ma che comincia assai prima e molto probabilmente finirà assai dopo di lui) e tutto è tornato al passato. Solo che a dipingere le mani di Berlusconi non c’è Piero della Francesca né a raccontare la fine dell’altro comico-politico – Beppe Grillo – c’è Shakespeare. Pazienza: abbiamo quel che meritiamo. Ma non illudiamoci che sia a costo zero per la comunità.

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