Nicola Fano

teatro e altre cose

Il nobel a Mo Yan

Poi scoprimmo la Cina. Scoprimmo l’orrore dell’invasione giapponese; scoprimmo la guerra di Chiang Kai-Shek e quella di Mao; scoprimmo l’assurdo della Rivoluzione culturale e quello delle scarpette strette imposte alle ragazze per farle crescere con i piedi piccoli; scoprimmo il fascino del sorgo battuto dal vento e quello dei vecchi capi della rivoluzione; scoprimmo Zhang Yimou e Gong Li. La Cina che non c’è più, insomma: quella raccontata da Mo Yan, premio Nobel per la letteratura del 2012.

Era il 1987 e una piccola casa editrice di cultura, Theoria, pubblicò (grazie all’insistenza della coraggiosa traduttrice Maria Rita Masci) Sorgo rosso, il romanzo di Mo Yan che aveva ispirato un film, appunto, di Zhang Yimou con la splendida attrice Gong Li. Dopo l’ondata dei sudamericani (García Márquez, Mario Vargas Llosa e gli altri), dopo l’ondata degli arabi (Tahar Ben Jelloun, Driss Chraibi e gli altri), fu il momento dei cinesi. Vennero Su Tong (Mogli e concubine, che aveva ispirato un altro film di culto, Lanterne rosse) e Yu Hua (Vivere!, Torture). Sono i cicli, gli innamoramenti del mercato culturale occidentale: ragione per cui fa ridere parlare di “morte del romanzo”. Semplicemente, viene rinnovato da culture “altre” che si appropriano di una tradizione che non è la loro. Vale per il Sudamerica, per il mondo arabo e soprattutto per la Cina.

Sicché, parliamo di Mo Yan. Nato nella provincia lontana (nella regione di Gaomi, che lo scrittore continuamente evoca come uno scenario dell’anima, quasi un Grande Sertão alla maniera di Guimarães Rosa), lo scrittore il cui pseudonimo in lingua antica significa “colui che non parla” ha saputo mediare tra la tradizione cinese (dove l’iconografia la fa da padrona) con quella occidentale (dove la fa da padrona la parola). E come tutti i grandi scrittori ha capito subito che la forza evocativa del racconta gli dava la possibilità di ritrarre per intero un’epoca di contraddizioni. Come ci ha raccontato in una breve, gustosissima autobiografia (in Italia, Cambiamenti, pubblicata ora è un anno da Nottetempo) ha subito i torti della Rivoluzione culturale: lo spaesamento, anzi lo sradicamento imposto dal regime che negò le sue pulsioni culturali e lo spedì a fare l’autista di camion. Ebbene, in Sorgo rosso quell’elemento vagamente anti-maoista è presente ma celato da ciò che rappresenta la quintessenza della letteratura occidentale: la mimesi. Sorgo rosso di fatto racconta un secolo di storia di cinese: tre generazioni. Dalla vita rurale del primo Novecento alla Rivoluzione culturale: passando per l’invasione giapponese e la guerra tra i nazionalisti di Chiang Kai-Shek e i comunisti di Mao. Il tutto, attraverso una grande famiglia che via via perde i pezzi. Al centro c’è la storia di Giu’er, una donna che va in sposa a un ricco, vecchio produttore di grappa di sorgo. Salvo che lei si innamora, riamata, di un brigante che le ucciderà il vecchio, odiato marito. Da qui si dipana la storia di un’emancipazione tipica: un romanzo di formazione che conduce i due fino alla rivolta anti-giapponese e alla guerra civile. Nel quale i due saranno sostanzialmente due eroi. L’io narrante di fatto si identifica con il figlio dei due, mentre la vicenda prende le mosse dalla nonna della protagonista, colei che impone alla ragazza di fasciarsi i piedi e il seno perché gli uni e l’altro restino piccoli come impone la tradizione popolare. Insomma, quattro generazioni del Novecento: ciò che ha avvicinato questo splendido romanzo ad altri due caposaldi narrativi del secolo: Cent’anni di solitudine di García Márquez e L’ultimo sospiro del Moro di Salman Rushdie. È importante notare che lo sviluppo narrativo del film che da Sordo rosso ha tratto Zhang Yimou è molto più ristretto: in pratica si limita alla storia della distilleria che la donna si trova a gestire (epicamente) dopo l’assassinio del vecchio marito. Nel senso che il cinema ha spazi più ristretti, deve emozionare in fretta e non può concedersi in pieno il privilegio della storia. Non a casa Bernardo Bertolucci quando volle affrontare lo sviluppo delle generazioni del suo secolo, con Novecento, dovette fare due film, non uno solo.

Sono due le pagine per me memorabili del romanzo di Mo Yan: quella in cui – come già detto – la giovane protagonista rischia di cadere dentro le sue scarpette deformanti e quella nella quale lo Zio Li, vecchio sodale della donna e di suo marito nella distilleria, viene catturato e scuoiato vivo dai soldati giapponesi. La prima è una descrizione quasi comica di orrore quotidiano: imporre la deformazione a una donna è terribile ma lo scrittore la racconta con lieve passione. La seconda, pur descrivendo un evento spaventoso (al limite dell’horror) è così fredda, così oggettiva da essere lontana anni luce dal pulp che di lì a poco avrebbe invaso con la sua inutile, stupida violenza l’immaginario pop dell’Occidente. Questa è la forza della tradizione non narrativa (quella cinese, nel caso) che ravviva il morente romanzo occidentale. Ma tutto Sorgo rosso è un libro da leggere e rilegge per capire come la Storia travolge le vite e le plasma; e come le vite raccontate possono fornire una chiave di lettura molto critica della Storia.

Sorgo rosso nell’edizione di Theoria ebbe un buon successo qui in Italia, ma la piccola casa editrice romana morì dopo qualche anno, sicché il libro venne poi ripubblicato da Einaudi, che ancora oggi lo ha in catalogo. Meglio andò il film che lanciò Gong Li nell’empireo dei divi hollywoodiani  (dove presto si è persa, insieme a Zhang Yimou), mentre l’armata cinese di romanzieri e cineasti cominciò a vivere una stagione di buoni successi internazionali. Non sapremo mai se questi narratori, questi registi e questi attori sono davvero ben visti o solo accettati per comodità dal regime (la storia assai controversa di Ai Weiwei insegna che su certe cose, da quaggiù bisogna andarci con i piedi di piombo), ma certo qualcosa di più della quotidianità cinese oggi la sappiamo grazie a loro. Per dire: Vivere! Di Yu Hua racconta per filo e per segno l’assurdo e la violenza che presiedono l’obbligo di convivenza di nuclei familiari diversi in una singola casa, in Cina. E così si potrebbe dire di tanti altri particolari: è la forza della letteratura. Ciò che ci fa immaginari (magari illudere) di conoscere un mondo, un paese lontano pur non avendoci mai messo piede per un solo istante. Ecco: leggendo Sorgo rosso si ha la sensazione precisa di percepire i colori esatti dello Shandong, la campagna intorno a Gaomi: e se mai ci dovesse capitare di andare lì, avremmo la sensazione di esserci già stati.

Mo Yan non è solo Sorgo rosso. L’altro suo romanzo di successo, Grande seno, fianchi larghi, è più politico e più conchiuso nei termini di una critica sobria (quanto può essere tollerata dal regime, d’altra parte) del maoismo. Meglio ancora questa rivelazione della violenza maoista si percepisce dai racconti de L’uomo che allevava i gatti dove è sempre la contraddizione tra obblighi rurali e propensione alla libertà individuale che si scontrano. D’altra parte Mo Yan ha questa peculiarità ricorrente: punta il dito sul regime con timidezza, senza far troppo clamore: dalla Cina deve poter uscire e rientrare, non è come tanti suoi colleghi che hanno scelto l’Occidente in modo definitivo. Perché è uno scrittore che ha bisogno di affondare la penna nelle sue radici per vivere e scrivere. Forse è per questo che i guidaci svedesi gli hanno assegnato il prestigioso Nobel: perché oltre ad essere uno dei maggiori scrittori del Novecento, è anche un uomo che alza la voce con levità e moderazione. Doti rare, di questi tempi.

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